I disturbi alimentari sono collegati alla mente?
Come possiamo correggere le abitudini a tavole ed evitare i problemi legati al cibo?
Disturbi alimentari: emotività e cibo
Quali sono i disturbi alimentari al giorno d’oggi. E, inoltre quale connessione esiste tra cibo ed emotività? Fin dalla nascita il cibo costituisce per il bambino fonte di nutrimento e affetto.
Contemporaneamente acquista un risvolto psicologico che influenzerà incisivamente il suo sviluppo psichico a vantaggio o svantaggio dei comportamenti futuri.
La qualità delle sue prime relazioni oggettuali determina uno schema su cui andranno ad innestarsi le relazioni future.
Aspetti biologici e psicologici del cibo si intrecciano costituendo un bagaglio emotivo che influisce sul suo sviluppo evolutivo determinandolo al positivo o pregiudicandolo (Baldassarre M., 2002).
Madre e Bambino
Alimentazione e relazione madre- bambino: il primo anno di vita. Il rapporto madre- bambino si instaura attraverso l’atteggiamento di cura, affetto e accoglimento; attraverso il contatto corporeo, le carezze e il calore; attraverso il cibo e il nutrimento.
Nel primo anno di vita del bambino, la disponibilità della madre è di fondamentale importanza. Qualora per svariate ragioni l’atteggiamento materno risultasse carente, potrebbe creare nei figli la necessità di recuperare “l’amore non ricevuto” attraverso il cibo.
I contributi e le citazioni di molti autori esperti sono di seguito riportati non con l’intento di evidenziare le colpe della figura materna, ma bensì la sua responsabilità e il peso che il ruolo materno ha nello sviluppo del bambino, e paradossalmente di quei disturbi alimentari che ne conseguono. Da tale consapevolezza ne deriva il diritto e il dovere di individuare e ammettere le proprie difficoltà di madre e di chiedere aiuto.
Come sostiene da tempo Hilde Bruch: “Ciò che conta è se le risposte ai bisogni del bambino sono state appropriate o se gli è stato imposto ciò che la madre credeva, spesso erroneamente, necessario” (1977).
Bisogni del Bambino
Se i bisogni del bambino non sono soddisfatti nel modo e nel momento giusto, si svilupperà un’alterata percezione della fame. Gli obesi infatti, non sembrano in grado di discriminare tra fame, paura, rabbia, tendendo ad interpretare ogni attivazione simpatica come fame e conseguentemente assumono cibo in eccesso (Onor M. L., 2009).
D. Winnicott, pediatra e psicoanalista britannico non parla di madre perfetta. Parla di madre sufficientemente buona riferendosi a quella madre che, in maniera istintiva, possiede le capacità di accudire il bambino dosando opportunamente il livello della frustrazione che gli infligge.
La madre sufficientemente buona possiede la cosiddetta preoccupazione materna primaria, uno stato psicologico indispensabile perché essa possa fornire le cure adeguate al piccolo e che le permette di fornire il mondo al bambino con puntualità, facendogli sperimentare l’onnipotenza soggettiva.
Tra i compiti della madre, infatti, vi è anche quello di presentare il mondo al bambino, presentazione degli oggetti.
Disturbi alimentari: ruolo della madre
La madre sufficientemente buona sa istintivamente quando presentare gli oggetti al bambino, quando accudirlo, quando e come frustrarlo, facendo sì che il suo sviluppo proceda senza intoppi e senza traumi per lui soverchianti.
Allo stesso modo, D. Winnicott parla di madre non sufficientemente buona, intendendo quella madre in genere in difficoltà, con problematiche psicologiche legate all’ansia, alla depressione o simili, che fornisce in maniera meccanica cure al bambino che non si adattano a lui.
Il bambino vivrà in un mondo presentatogli dalla madre che non ha creatività. Anziché essere la madre ad adattarsi al piccolo, sarà lui a doversi adattare alla madre, alla quale dovrà essere accondiscendente.
La madre non sufficientemente buona può distruggere in maniera traumatica l’esperienza di onnipotenza soggettiva del bambino, egli smetterà di vivere nell’illusione che è lui a creare e distruggere gli oggetti e ciò favorirà in particolare lo sviluppo di un falso sé o doppio legame (Ciocca A., 2005).
Come sostiene M. Baldassarre: “Se la madre lo ingozza di cibo o lo trascura, il cibo da fonte di nutrimento ed esperienza di piacere, si trasforma in un vissuto ansiogeno che è sperimentato in modo disturbante, a volte doloroso, dal bambino.
Voracità e inappetenza
La voracità o l’inappetenza di alcuni individui adulti trova le radici nel passato emotivo che risale alle più antiche esperienze affettive: quelle della prima infanzia e quindi all’apparenza il cibo è direttamente in causa, in realtà è in causa soprattutto la relazione affettiva che questi soggetti hanno sperimentato” (2002).
G. Mesi sottolinea che “il bambino avverte i suoi bisogni in maniera piuttosto confusa e indifferenziata (…) occorre l’interazione con l’ambiente e le risposte di questo perché possa via via imparare a riconoscere i suoi vari bisogni (…) Se le risposte sono confuse, il bambino non imparerà mai a distinguere chiaramente uno stato di tensione da un altro e ad esprimerlo in maniera differenziata” (1989).
Un esempio molto semplice di disturbi alimentari nati da un’atteggiamento scorretto della madre è riportato da P. Del Verme.
“se la madre risponde con l’offerta di cibo ad ogni richiesta di disagio, si formerà una connessione stabile tensione/assunzione cibo e il bambino sarà portato a ripetere il meccanismo appreso mangiando in riposta a differenti stati di conflitto” (1989).
Obesità
L’ambiente familiare e le relazioni con i genitori esercitano un’importante influenza sullo sviluppo, e sul mantenimento dell’obesità infantile.
Giuseppa Mesi così definisce alcune caratteristiche della famiglia del bambino obeso: “Un ambiente familiare carico di tensioni più o meno latenti tra i coniugi, una mancanza di sicurezza e di serenità nell’atteggiamento della madre verso il figlio oscillante tra casi di iperprotezione e casi di rifiuto, ma soprattutto una insoddisfazione personale dei genitori.
Tutto ciò si traduce nel tentativo di usare il figlio come compensazione o realizzazione trasferita delle proprie aspirazioni non realizzate o la considerazione del figlio come proprietà personale, dimostrazione delle proprie capacità, del proprio successo” (1989).
Kiell Norman nell’introdurre una serie di lavori sulla psicologia dell’obesità riporta che “comunque si voglia definire l’eccesso ponderale, si è d’accordo nel ritenere che:
la persistenza nell’iperalimentazione ha le sue basi in problemi emotivi non risolti. E che l’alimentazione stessa rappresenta un sostituto per altre soddisfazioni; la persona obesa è vittima di spinte sociali ed inconsce che la inducono a persistere in un comportamento ripetitivo e autodistruttivo” (1973).
Iperalimentazione
Da un punto di vista generale si può distinguere un’iperalimentazione:
- da abitudini acquisite nell’ambiente familiare in una fase precoce della vita;
- ed una da meccanismi subconsci o inconsci come reazione a situazioni stressanti.
Al tempo stesso, i confini tra le due forme non sempre appaiono ben definiti.
Nel primo caso, anche i bambini perfettamente sani sia nel fisico che nella psiche possono abituarsi a mangiare troppo allorché vivono in un ambiente familiare che ha questa consuetudine.
Inoltre, abitueranno insidiosamente all’eccesso alimentare anche:
- un atteggiamento iperprotettivo, o un’eccessiva ansietà da parte di un genitore;
- la purtroppo ancora frequente convinzione che il bambino obeso rappresenti l’equivalente del bambino sano e che l’organismo necessita nel primo periodo di accrescimento di un sovraccarico alimentare;
- la maggiore abilità di alcuni genitori nel fornire il ragazzo di soldi da spendere in dolciumi e fast food piuttosto che comunicare affetto e familiarità.
Pertanto, allevato in un’atmosfera che dà molta importanza all’alimentazione, obbligato a mangiare con persuasione, o, in seguito, a minacce anche in circostanze che comportano una transitoria diminuzione dell’appetito, il bambino verrà contagiato dall’ambiente risultandone condizionato.
Rifiuto del cibo
Nelle rare volte in cui si verifica, il rifiuto di assumere cibo può provocare peraltro delusione o risentimento nell’ambito familiare con conseguente senso di colpa nel bambino che ha rifiutato.
L’equilibrio nel centro ipotalamico della fame viene alterato fino al punto che il bambino si livellerà su una costante iperalimentazione e finirà per scatenare quel disturbo alimentare e portarlo a divenire obeso.
La ridotta attività fisica derivante per lo più da un temperamento apatico che riduce il piccolo obeso alla vita sedentaria e il conseguente minor consumo calorico favoriranno ulteriormente l’incremento e il mantenimento dell’obesità (Kiell N., 1973).
Nel secondo caso, l’iperalimentazione rappresenta, indipendentemente dall’età, l’espressione di una reazione emotiva a stimoli ambientali e il cibo viene utilizzato come pseudosoluzione per innumerevoli conflitti e problemi.
Questa abitudine risiede spesso in un ambiente familiare insicuro, ansioso e talvolta esso stesso obeso che ha sempre offerto cibo allorquando il bambino in tenera età ha mostrato con il pianto segni di irrequietezza.
Abituato in una fase precoce della vita ad usare il cibo come riduttore dell’ansia e a legare la necessità di esso a qualunque altra sensazione, l’adulto che per un qualsiasi motivo si sente infelice o trascurato rifugge la compagnia degli altri e trova consolazione nell’iperalimentazione (ibidem).
Obesità e Struttura familiare
Salvador Minuchin nel 1980 ha sviluppato un modello sulla struttura familiare ed ha individuato transazioni familiari che favoriscono lo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare compresa l’obesità.
Le transazioni familiari possono essere riassunte nei quattro stili relazionali più significativi quali l’invischiamento, l’iperprotettività, la rigidità, l’evitamento del conflitto.
Le famiglie invischiate sono caratterizzate da un livello patologicamente elevato di coinvolgimento ed attaccamento tra i diversi componenti che implica intrusioni sia nella vita materiale che nei pensieri e nella loro interpretazione da parte dei componenti della famiglia.
In questa situazione confusionaria anche i confini tra i sottosistemi sono deboli e ciò porta alla formazione di alleanze. Un sottosistema madre-figlio altamente invischiato può, per esempio escludere il padre che diventa estremamente disimpegnato.
Il danneggiamento sotterraneo all’autonomia dei figli potrebbe essere causa di sviluppo di un sintomo quale l’obesità, ed altri disturbi alimentari correlati. In ogni caso, per M. Cairoli (1998) questo voler condividere tutto e per forza porta paradossalmente ad una scarsa percezione dei propri e altrui bisogni. Da ciò emerge l’incapacità a riconoscere segnali negativi e a rispondere ad essi in modo non adeguato.
Cibo emozionale
L’assunzione emozionale di cibo può essere usata come una modalità di comunicazione, non solo, ma in una famiglia invischiata, i genitori possono arrabbiarsi tantissimo se il figlio non mangia il dolce. La famiglia si definisce molto unita, tutti si vogliono bene ed ogni membro cerca di fare piacere agli altri, i genitori non sono autoritari e il fine ultimo è il bene familiare.
Le famiglie iperprotettive sono caratterizzate da un sentimento relazionale dominante che coinvolge l’intera famiglia dove la preoccupazione comune ruota intorno al benessere reciproco.
La percezione delle necessità degli altri, da parte di ciascun membro della famiglia è basata sulla preoccupazione protettiva. L’iperprotezione come sostiene M. Cairoli (1998) esercitata dai genitori sui figli ostacola, o blocca, l’acquisizione dell’autonomia, ne consegue la tanto riferita immaturità dei soggetti obesi.
Il mito della famiglia iperprotettiva sembra essere l’aiuto che, se posto in discussione, mette in crisi il potere di chi protegge.
Comunicazione familiare
Le famiglie rigide sono caratterizzate da rigidi modelli di comunicazione. Quando però lo status quo non può essere più mantenuto perché vi sono degli eventi che richiedono un cambiamento relazionale, i componenti familiari insistono nel mantenere metodi abituali di interazione. I modelli di comunicazione diventano rigidi, utilizzando uno stile interattivo autoritario.
In modo particolare, questo stile è manifestato dai genitori nel controllo qualità-quantità del cibo consumato dai figli. Sono famiglie che negano qualsiasi problema all’interno della famiglia dove l’unico vero problema riconosciuto è il figlio obeso.
Per quanto riguarda l’ultimo stile relazionale (incapacità di gestire i conflitti) molti autori ritengono che il modello relazionale più frequente riscontrato in famiglie con figli obesi è dato dall’evitamento dei conflitti attuali con diverse modalità e che racchiude in sé i tre stili relazionali sopracitati.
L’evitamento dei conflitti secondo E. Molinari (1995) e M. Cuzzolaro (2000) influenza negativamente sia la transazione della rabbia che l’affermazione di sé;questi due sentimenti sembrano essere correlati con vari disturbi alimentari come l’obesità.
L’obesità dal punto di vista organico
Con il termine obesità si intende una condizione clinica caratterizzata da un’alterazione della composizione corporea per eccesso di massa grassa che rappresenta chiaramente il
risultato di un eccessivo apporto calorico in rapporto al dispendio energetico.
Il progetto “Okkio alla salute” è un’indagine condotta dal 2008 al 2016 nelle scuole italiane dal Ministero della Salute, del Lavoro, delle Politiche Sociali coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e condotto in collaborazione con le Regioni e con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Questo sistema di sorveglianza sul sovrappeso e l’obesità nei bambini rende noto che nel corso degli anni l’eccesso ponderale, monitorato dalle varie rilevazioni, risulta in progressiva diminuzione.
Tuttavia resta elevato l’indice di massa corporea di bambini e adolescenti. In Italia, il 21,3% dei bambini sono in sovrappeso e il 9,3% sono obesi, compresi i bambini gravemente obesi che da soli sono il 2,1% (rilevazione del 2016). Inoltre, i bambini in sovrappeso hanno un rischio quattro volte maggiore di sviluppare l’obesità in adolescenza e nell’età adulta.
L’obesità, soprattutto quella infantile, rappresenta un fattore di rischio per una serie di morbosità in età adulta e ha ripercussioni notevoli anche sulla sfera psicologica dell’individuo.
L’obesità dal punto di vista psicosomatico
Le malattie psicosomatiche, citando le parole di Boris Luban-Plozza (1989) “sono quelle che più strettamente realizzano uno dei meccanismi più arcaici con cui si attua un’espressione diretta del disagio psichico attraverso il corpo”.
Come scrive Massimo Clerici: “L’obesità psicogena è appunto considerata da diversi autori come un disturbo psicosomatico: negli obesi, l’ansia e la tensione emotiva verrebbero scaricate in un comportamento alimentare incongruo, iperalimentazione, per la tendenza a vivere il proprio stato emotivo in modo indifferente” (1996).
Sulla base dell’esame psicoanalitico dei pazienti obesi, W. Hamburger (1951) ha classificato i fenomeni di superalimentazione nei disturbi alimentari, distinguendo quattro diversi tipi di iperfagia:
- come risposta ad una tensione emotiva generica (ansia, noia, solitudine,ecc.);
- come gratificazione sostitutiva di una situazione di vita intollerabile;
- Ed inoltre come sintomo di un disturbo emotivo profondo rappresentato specialmente da depressione e isteria;
- O ancora l’iperfagia come tendenza ossessiva verso il cibo (analogamente allatossicomania) come desiderio continuo e irresistibile di mangiare.
Dietro l’iperfagia si condensano alcuni problemi che più di altri investono la sfera psicologica come compensazione a frustrazioni intolleranti per l’individuo che viene
toccato nel suo apparato narcisistico.
L’iperfagia assume un ruolo di difesa, anche se inadeguato per i risultati che dà, cerca di allontanare i conflitti profondi nei quali l’individuo si dibatte.
Questo aspetto protettivo richiama il bisogno di inattività dei soggetti obesi che caratterizza sia quelli in età evolutiva che gli adulti (Baldassarre M., 2002).
F. M. Ferro sostiene che “L’obesità servirebbe a coprire una fragilità di fondo e sarebbe quindi leggibile come strategia difensiva sia rispetto a un’inadeguatezza interna sia rispetto a minacce provenienti dal mondo esterno.
Quando si supera un certo limite, la difesa perde la sua funzione e si trasforma nel suo contrario, in un disagio, in una condizione di sofferenza” (1998).
Disturbi alimentari colmare il vuoto con il cibo
Dal punto di vista della personalità si evidenziano alcune caratteristiche come la passività, la difficoltà a implicarsi in legami profondi, il livello di ansia e l’inibizione sono notevoli.
Gli aspetti più nocivi sono l’incapacità di controllare gli impulsi e il dover far fronte continuamente ad uno stato depressivo profondo e per potersi difendere il soggetto ricorre
a delle difese primitive: riempirsi continuamente diventa un mezzo per ostacolare il vuoto interno e per resistere (Baldassarre M., 2002).
Tale sensazione di vuoto è un disagio difficile da definire e l’angoscia che ne deriva viene tamponata ricorrendo al cibo.
Ma così facendo, affermano V. Caprioglio e E. Muti “Anestetizziamo con il cibo le nostre sofferenze… S’innesca un circolo vizioso…Soffro…Anestetizzo mangiando… Mi sento in colpa perché peggioro la mia immagine…Non mi piaccio più… Soffro… Anestetizzo mangiando… E così via (1988).
Alessitimia e disturbi alimentari
Le emozioni e la loro espressione comportamentale equivalgono ad una difficoltà notevole per i pazienti psicosomatici che non permette loro di “tirare fuori” le emozioni, costituendo un vero e proprio blocco emotivo.
Questa condizione limitata di vita emotiva ed immaginativa è definita da Peter Sifneos come alessitimia, termine che etimologicamente proviene dal greco (a = assenza, lexis = parola, thymos = emozione) e significa letteralmente “emozione senza parola” o anche “mancanza di parole per le emozioni”.
Sebbene il termine sia stato coniato da due psichiatri dell’Università di Harvard, Peter Sifneos e John Nemiah (1970), già dieci anni prima P. Marty, de M’uzan e C. David anticiparono concettualemente ciò che prenderà il nome di alessitimia introducendo il concetto di “pensiero operativo”.
Con ciò è indicata una presunta povertà immaginativa ed una scarsa attitudine alla simbolizzazione dei pazienti psicosomatici. Secondo i tre i psicoanalisti francesi, il malato psicosomatico è di solito una persona efficiente ed apparentemente ben adattata, estremamente concreta ed incapace di staccarsi con il pensiero dal presente immediato (Canali, Pani, 2003).
Difficoltà nell’esprimere emozioni
Si tratta spesso di persone che hanno difficoltà a far venire alla luce le emozioni. A tal proposito Peter Sifneos scrive: “Gli Alessitimici non hanno parole per le emozioni (…) Se l’emozione non può essere espressa con le idee e i fantasmi, essa deve essere espressa dal cervello autonomo e dal sistema endocrino.
Allora, se esistono dei deficit negli organi periferici, come nello stomaco, nel polmone o altrove, e nello stesso tempo una eccitazione del cervello autonomo, endocrinologico, abbiamo un conflitto che è espresso come una lesione somatica” (1991).
Anche se l’alessitimia non è direttamente legata con l’abbuffarsi e ai disturbi dell’immagine corporea, è un costrutto legato a tratti psicologici tipici nelle persone affette da disturbi alimentari del comportamento a tavola.
In particolare la confusione enterocettiva, la difficoltà nel comunicare i sentimenti, la percezione alterata dello stimolo della fame, che assurge a rappresentante di una più vasta difficoltà nella distinzione tra gli stimoli interni e gli stimoli esterni. Cioè nel corretto riconoscimento delle proprie emozioni e sensazioni.
Tale carenza priva queste persone di una importante fonte di informazioni sul proprio stato di benessere e sui propri desideri e bisogni, ostacolando la creazione di confini stabili con gli altri e incrementando la dipendenza dall’ambiente esterno per avere conferme e sicurezze.
La dipendenza, infatti, costituisce un tratto fondamentale nelle persone affette da disturbi alimentari (Corte B., 2005).
Riferimenti bibliografici per approfondire le cause psicologiche dei disturbi alimentari:
– Baldassarre M., (2002), Disturbi alimentari e psicopatologia. Borla, Roma;
– Bruch H., (1977), Patologia del comportamento alimentare. Obesità, anoressiamentale e personalità. Feltrinelli Editore, Milano;
– Cairoli M., (1998), Ruolo dei fattori psicologici nello sviluppo dell’obesità in età evolutiva, Rivista italiana di Pediatria, Vol. 24, suppl.3, pagg 18-22;
– Ciocca A., (2005), La psicoanalisi. Clinica e teoria. ESA, Pescara;
– Clerici M., Lugo F., et alii (1996), Disturbi alimentari e contesto psicosociale: bulimia, anoressia e obesità in trattamento ospedaliero, Franco Angeli, Milano;
– De Vanna M., Onor M. L., Trevisor M., et alii, (2009), Obesità e alessitimia. Medicina Psicosomatica, Vol. 54, Num. 3, Società Editrice Universo, Roma;
– Del Verme P., Paga G., Mesi G., (1989) Nuove Tesi di psicosomatica, Edizioni Luigi Pozzi, Roma;
– Ferro F. M., (1998), Obesità: un problema di sanità pubblica alla ricerca di modelli di medicina integrata. Clin Dietol., Num. 2, pagg. 87-93;
– Kiell N., (1973), The Psycology of Obesity, Thomas, Sprinfield;
– Luban-Plozza B., Poldingee W., Krogers F., (1992), Il malato psicosomatico e la sua cura. Astrolabio, Ubaldini Editore, Roma;
– Mesi G., (1989), Obesità infantile, in A.A.V.V., Nuove Tesi di psicosomatica, Edizioni Luigi Pozzi, Roma;
– Minunchin S., (1980), Famiglie psicosomatiche, Astrolabio, Roma;
– Molinari E., Campone A., (2002), Dossier: Il disagio dei bambini obesi. Famiglia oggi, Num. 5;
– Pani L., Canali S., (2003), Emozioni e malattia. Dall’evoluzione biologica al tramonto del pensiero psicosomatico. Mondadori Bruno Editore, Milano;
– Sifneos P.,(2002), Affetto, conflitto emotivo e deficit. Nuove Prospettive in Psicologia, Anno X°, Fasc. 27, Pescara
– Winnicott D., (1960), Il rapporto iniziale della madre col bambino. In: La famiglia e losviluppo dell’individuo. Armando, Roma;